martedì 15 novembre 2011

APPUNTI SULL'ARTE - note di diario 1947 - 1990

NERO
Il nero è un'entità, una presenza significante.
Il nero non è anticolore, è colore morale. 
Il nero è anche protesta, come il bianco ha valore di pace.

 
Nato dalle terre, dalle ocre gialle, rosse, brune dei primi anni, negli anni ’40, dai grigi nelle loro infinite cadenze (degli anni ’50), dai bianchi crudi e secchi, io ho trovato nel nero un punto di appoggio. Mi pare un riconoscimento essere stato considerato un pittore del nero. Anzi, un privilegio.
Anche se, quando i neri di Hartung o di Kline non erano consueti, si veniva considerati “troppo tristi e severi”. Il piacere di non essere di moda. E il dolore di leggere uno sguardo severo negli occhi di chi guarda.



Un gallerista arrivò a dirmi, in anni di imperante pittura neorealista e bozzettistica, “…ti prego Enrico, mettici un po’ di colore…come fa la gente a piazzarlo in salotto?” Ma forse, voleva dire, come faccio io a vendere? Ma la cosa, per me, non era poi così importante.
Solo il nero mi faceva e mi fa infatti riflettere sull’essenziale. Solo il nero permette di raggiungere cadenze gravi, favorisce una particolare risonanza al silenzio.
Ecco. Certi neri si guardano in silenzio mentre dilagano dal bianco del foglio.



BIANCO/NERO



Amo i segni scanditi dai neri e dai bianchi, i campi neutri dei grigi che nascono dalle opere calcografiche (xilografia, acquaforte, acquatinta) perché stabiliscono comunicazioni durature in continuo divenire. Innervati da segni e campi fatti di forme anellari, dischi, curve concentriche ed eccentriche, i neri e i bianchi rappresentano una modalità di dialogo costante, un’infinta possibilità di comunicazione.
Ognuno, in fondo, usa la propria sintassi.



COLORI

I colori non sono pietre e oggetti che possono vivere separati. Diventano vitali solo quando instaurano tra loro un loro rapporto di accordo o di dissonanza. E’ l’insieme che caratterizza l’opera e dona ad essa un particolare timbro di tipicità.

Nei colori degli “altri” amo e percepisco tutte le gamme cromatiche, ma davanti al mio quadro, qualunque sia il suo limite, il rapporto con la tavolozza è sofferto, anche quando mi sembra che tutto sgorghi spontaneo.

Il colore, per me, ha un valore morale. E quindi il bianco può essere purezza e luce; il nero denuncia, contrasto compressione, angoscia. La gamma dei grigi esprime severità, ma anche dolcezza. I bruni, gli ocra, i blu e i rossi si inseriscono a rappresentare varietà di sentimenti, oltre che a determinare risonanze timbriche. Il nero, in particolare, è un colore che assume un ruolo significante, sia da un punto di vista tecnico che psicologico ed emotivo.


CIRCOLARITA’



La scelta del cerchio, del disco, dell’ellisse sia in campo bidimensionale che tridimensionale mi offre una vasta sfera di riflessioni. Queste forme primarie da decenni mi ossessionano e nello stesso tempo mi placano. Sono immagini incontrollabili che continuano a sgorgare per un’esigenza interiore.

Ecco il perché della mia “idea fissa”. Non si tratta di una ripetizione, ma di una caparbia ricerca di varianti, nelle quali la luce da me inseguita nel contrasto tra i bianchi e i neri, tra luminosità e controluce, tra positivo e negativo diventa elemento primario.

Forse dovrei cominciare dalle mie lontane emozioni davanti all’onda, al gorgo, all’incanto della luna. Fin da bambino sono stato un contemplativo.

Io cerco la tensione interna della forma, il cui risultato mi dà il brivido.
La forma anellare, figlia della mano e condotta dalla mente, può essere sviluppata nelle infinite varianti dei suoi profili, quasi fosse un tema musicale. Una circonferenza, un disco, mi offrono la possibilità di percorrere un viaggio senza fine.


GLI AMICI DI OGNI TEMPO



Quasi sempre, luoghi, persone, forme mi richiamano alla mente opere di ogni tempo.

Van Gogh è presente fra le stoppie strapazzate dal vento, in pieno sole.

Le strutture cromatiche di Cèzanne balzano fuori dalla montagna, le bave scomposte di un abbeveratoio mi ripropongono le materie “brute” di Burri.

I rigori geometrici di certe infiorescenze mi avvicinano ai concetti scanditi da un Vasarely o da un Mondrian.
La nebbia è Turner, il silenzio è Donghi. E potrei continuare all’infinito. Anzi, no. L’infinito nessun artista potrebbe mai esprimerlo…


VERSO L’ASTRATTISMO



Il mio passaggio all’astrattismo non è stato repentino, ma lento e sofferto. Forse tutto è cominciato da una sorta di sazietà per certe forme di espressione, non soltanto mie, che mi fece entrare in polemica con me stesso. Inoltre in quegli anni, dopo la fine della Guerra, si susseguirono a ritmo incalzante scoperte scientifiche, innovazioni tecnologiche e un’esplosione di mass-media che influirono violentemente sulla mentalità della società in cui vivevo.
Fatti che mi turbarono profondamente e mi fecero avvicinare, da osservatore estetico, ai misteri del cosmo, spingendomi verso stupori e contemplazioni mai prima da me sperimentate.

Due tra le prime esplorazioni di arte non figurativa, 1946


L’UNIVERSO A TRE DIMENSIONI



Ho sempre sentito che la scultura, o per meglio dire, la “tridimensionalità”, come convergenza di forma-luce-materia e come momento spirituale.

Tutto il creato è tridimensionale, perché dal microcosmo al macrocosmo, è spazio scandito in forme, andamenti vuoti e pieni. Per me passare dal bidimensionale al tridimensionale, o viceversa, è un processo di complementarità che mi stimola e arricchisce. Passare dal colore, dal supporto alla concretezza di una qualunque materia da afferrare, piegare, accostare, modellare, è un fatto naturale e indispensabile.



CONTROLUCE



Spesso parlando di luce, accenno al controluce.
E molte mie opere tridimensionali insistono su questo effetto. Qualcosa di più un effetto. Un modo di vedere le cose come non le vedresti in una situazione espositiva normale.

Se mi avvalgo del controluce è perché la luce mi affascina, non perché mi respinge. E mediante elementi di contrasto intendo dare il massimo risalto alla luce.

Gli anelli, le ellissi e le altre figure che amo, vogliono valorizzare il nocciolo di luce che essi imprigionano. Alcune mie opere hanno quasi l’aspetto di orbite oculari. 
Le mie non sono sculture del pieno, ma sculture del vuoto.

L’INVENZIONE DELLA TESSILITA’



La progettazione e la realizzazione dei miei arazzi murali inizia all’inizio degli anni sessanta e si prolunga per oltre un decennio, inserendosi nella scia della tradizione della “pittura murale tessuta”.

Fin da giovane, infatti, ho fortemente sentito il fascino della parete come sede e supporto di immagini e colori. Ho poi scoperto il valore del tessuto come materia ideale per proporre un’assorbenza di luminosità del tutto particolare.

Come scrissi in una discussa “Proposta agli Architetti”, mi sembrava anzi, che la facilità di trasporto e la varietà di collocazione delle immagini realizzate in tessuto potesse essere utile nel nostro tempo, così come lo era stato nella vita di tanti nomadi, di molti continenti, di ogni tempo.

All’inizio fu molto difficile trovare maestranze preparate e dovetti io stesso formarle e motivarle, attraversando tutta l’Italia, dalla Sardegna all’Abruzzo, dalla Lombardia al Friuli Venezia Giulia, trasformando laboratori artigianali in atelier.  Spiegando, e fu quella la cosa più difficile, che tradizione non significa stereotipo, e che la tecnica poteva essere messa al servizio anche di nuovi mondi espressivi.

Successivamente il concetto di “tessuto” si è trasformato in un nuovo concetto di “tessilità” dando vita ad applicazioni e sperimentazioni del tutto inedite, anche al di fuori del nostro paese.

Il filamento diventa protagonista dell’opera, la trama e l’ordito si scindono dimostrando di avere ognuno vita propria.
E’ da questa considerazione che hanno preso corpo i miei diaframmi, elementi sospesi sensibili ai moti dell’aria, alternanza di zone trasparenti (l’ordito) con zone compatte e opache (le zone tessute), con la possibilità di esaltare forme inedite e colori diversi. Una forma espressiva che prima non c’era, che mi piace immaginare possa avere nel futuro una vita propria, permettendo ad altri artisti, dopo di me, di esprimere il proprio mondo interiore.


ANNI NOVANTA



Ogni età della storia ha il suo carattere. Così come ogni età dell’uomo.
Da quando il concetto di astrazione figurativa, di tangibile meditazione, è entrato in me, ho camminato su strade e sentieri che solo apparentemente erano diversi. In realtà la meta era una: la ricerca della verità, dell’assoluto nell’arte.

Ho amato i colori poveri, i “colori del saio” – si disse. Poi il bianco e il nero mi si proposero come elementi necessari per contrastare positivo e negativo, realtà e sogno, luce e ombra. Da allora è partita forse la mia consapevole e testarda ricerca della luce.

Ho studiato e cercato la luce (la luce interna) con ogni tecnica. Per decenni ho operato sul cerchio, sul disco, e su ogni possibile derivazione, deformazione, concentrazione, dilatazione. E ancora sento il fascino di queste forme e so che ancora lavorerò su di esse.

E anche le forme delle mie opere, le dimensioni sono in parte mutate.

Mi affascinano gli andamenti orizzontali e verticali che già sperimentai in anni passati. Ho recentemente prodotto opere a lunghe bande arrotolabili: un racconto, una vena aperta di modi e colorazioni che potrebbero andare all’infinito. Verso quella meta che fissai da ragazzo, che mi provoca e mi attende ancora.


FUTURO



Cosa farò tra qualche anno? Magari quando sarò così vecchio da non potere più esprimere i miei sogni? Non lo so. Ma so che solo nel mio studio sono stato (e sarò) veramente a mio agio. Nella mia casa. E mi piacerebbe, come certi animali, rinchiudermi per sempre nella mia tana. O sparire, un giorno, allontanandomi dalla capanna, come certi sciamani.




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